Onorato-Godano, “ex”: libro, tour e presto anche un cd. Intervista a gianCarlo Onorato

Cristiano Godano e gianCarlo Onorato

Cristiano Godano e gianCarlo Onorato

Manca poco all’uscita del cd registrato durante la serata del 28 dicembre dello scorso anno alla Latteria Molloy di Brescia. Un live tra i tanti che gianCarlo Onorato ha tenuto insieme a Cristiano Godano dei Marlene Kuntz.

Prima, però, lo stesso gianCarlo Onorato ha pubblicato un saggio sui generis dal titolo “ex – semi di musica vivifica” (VoloLibero, 2013). Musicista, scrittore, pittore e produttore, esordisce nel 1977, a soli diciassette anni, alla guida degli Underground Life, gruppo di rock dʼarte, dedito all’interazione di diverse discipline (narrativa, poesia, videoarte, teatro, danza, musica). Onorato ama nuove atmosfere libere da generi definiti e prosegue in questo suo intento nel 1992 quando inizia la sua carriera solista, approdando man mano a una dimensione in cui le diverse discipline riusciranno a convivere tra loro e in tutta la sua produzione.

Velvet Underground, Radiohead, Nick Cave e Beck dicono già molto riguardo a come è nato e a come sta crescendo “ex”, ma gianCarlo Onorato nell’intervista che ci ha gentilmente concesso ci ha detto molto di più.

Dove nasce l’esigenza di “raccontare l’Italia dal 1977 fino a dieci anni fa, dal punto di vista intimo e insieme socio-musicale di un musicista”?

Pensavo semplicemente che non fosse mai stata raccontata, in Italia, da questo punto di vista. In ogni caso è un periodo che racchiude tanti e tali cambiamenti e gangli socio-culturali per gli anni a seguire, che pensavo che come impresa andasse tentata. Inoltre le diverse retrospettive offerte del periodo a partire da quel fatidico 1977 mi sono spesso parse piuttosto parziali, o, peggio, descrizioni di persone, fatti e scenari deformati dalla nostalgia, se non semplicemente e asetticamente riportati come dati meramente storici, ma poco calati in un raffronto col presente.

Quando alcuni anni fa mi fu commissionato un articolo su ciò che artisticamente e culturalmente avesse rappresentato secondo me il periodo degli anni ottanta, dopo la stesura di un pezzo lungo e alquanto critico, mi sono reso conto che questo non era sufficiente per dire la mia e che mi rimanevano in tasca molte impressioni da offrire su un lungo periodo.

Così ho messo da parte momentaneamente il romanzo al quale lavoro da tempo, e ho affrontato questo testo, che per me è stato arduo portare a termine. Realizzavo che in definitiva non avrebbe avuto senso parlare di oggi senza risalire a quella che è stata una sorta di fonte di molte delle istanze che ancora ci riguardano molto intimamente, così come viceversa non sarebbe stato interessante parlare solo di quel periodo, trascurando un necessario allacciamento a ciò che oggi viviamo. Scrivendo ho preferito così una visuale intima, personale, con una forte apertura verso il collettivo. La seconda persona a cui mi rivolgo nel testo è al tempo stesso un tu riflessivo, sia un voi/noi.

Non so se questa operazione sia riuscita del tutto, tuttavia mi ha permesso di chiudere un debito importante che avevo col passato, e aprire un dialogo con chiunque lo volesse, sulla necessità di essere sempre attivi nella realtà, in qualsiasi tempo.

Come ha vissuto un musicista l’Italia di allora e come vive quella di oggi?

Il termine musicista vive di accezioni talmente ampie e sfaccettate, che almeno nel mio caso, e almeno a partire dal post-punk, è necessario parlare più genericamente di un individuo creativo. Personalmente, avendo avuto da subito ben chiaro che il mio nemico fosse qualunque classificazione, in genere, categoria, epoca, stile eccetera, lo scopo fosse quello di lavorare su di me. Ed è ciò che mi ha salvato dalle categorie e dall’appartenenza a qualunque epoca.

Tempo fa il nostro Paese rifletteva inevitabilmente anche nella musica una forte connotazione provinciale, ed era ancora più marcato il confine tra musica colta e musica popolare. Oggi tutta questa separazione comincia a non significare più nulla, e questo è un passaggio importante.

Per il resto, direi che ieri si lottava contro un potente isolamento culturale, comunicativo, strumentale, mentre oggi, che queste lacune sono compensate dalla tecnologia diffusa ovunque, il problema è quello di trovare una propria voce, una identità il più possibile autonoma in un oceano di contaminazioni e di intromissioni. La nostra ricchezza di fonti è anche il nostro principale generatore di povertà.

Mi pare che oggi il vero problema sia quello di riuscire a trovare un attimo di solitudine intellettuale, che allevi il frastornamento di troppi messaggi simultanei. Sappiamo tutti che isolare e approfondire le idee è il vero problema dei giorni nostri. Il silenzio utile a capire chi siamo è dura prova individuarlo. Ma l’equilibrio tra confronto e approfondimento è ciò che determina un percorso sensato.

ex - semi di musica vivifica (VoloLibero, 2013)

ex – semi di musica vivifica (VoloLibero, 2013)

Avevi previsto sin dall’uscita del libro che lo spettacolo sarebbe diventato un concerto-reading?

No, ma quando il libro è stato sul punto di essere pubblicato cioè, caso raro, appena terminato di scrivere, mi sono reso conto che il testo sarebbe stato alieno a molti ambienti imbalsamati quali sono spesso quelli strettamente narrativi, così come sarebbe stato troppo spinto sul piano intellettuale per essere accolto facilmente in quelli un po’ troppo svuotati di contenuti come quelli musicali. Dunque la cosa più naturale, piuttosto che arrampicarmi su improbabili presentazioni in cui avrei snocciolato le mie elucubrazioni (per quanto essenziali) su musica, individuo, società, filosofia e scienza, sarebbe stata quella di suonare lasciando galleggiare nell’aria tutto questo e affidandomi poi alla voglia di approfondimento che in seguito sarebbe potuta scaturire da certe suggestioni lanciate in concerto. Da lì in poi è stato un susseguirsi di concerti e di risposte emozionanti all’emozione che noi musicisti sul palco provavamo.

Tengo solo ora piccole e sporadiche presentazioni del libro più normali, ma deve esserci la condizione giusta, liberata dalla retorica salottiera che generalmente accompagna la presentazione di un libro. Si tende a una doppia e improduttiva visione del libro: da una parte è ignorato, dall’altra parte considerato per convenzione come una specie di summa di verità inconfutabili e oggetto di eccessiva venerazione un po’ ottusa. Un libro è un insieme di considerazioni di una persona, raccolte in modo organizzato e con uno sperabile senso della misura sia dal punto di vista artistico sia comunicativo. Ignorarlo è stupido e dannoso, idolatrarlo per partito preso, altrettanto dannoso, ma ancora più stupido. Quindi mi piace parlare in pubblico del mio libro, o, se si preferisce, di ciò che io avrei da dire su certi argomenti e che poi è stato in parte condensato nel testo, ma solo in situazioni in cui so di potere abbattere certe barriere retoriche e poter entrare in vibrazione personale con chi mi ascolta, ascoltando a mia volta. Molte cose le sbaglio di certo, sarebbe stupido non considerarlo e il mio mestiere offre un unico grandissimo privilegio: quello del confronto continuo.

Com’è nata l’idea di coinvolgere Cristiano Godano nel progetto?

Anche questo è stato naturale. Da anni tengo un fitto dialogo con parecchi musicisti di diverse generazioni, e trovo che sia sinceramente un arricchimento per tutti conoscersi e frequentarsi, al di là dei propri percorsi, perché sigillarsi nella carriera è rischioso e può portare a irrigidirsi eccessivamente su ciò che si crede di avere da dire. Nessuno ha granché da dire se non ascolta ciò che altri dicono. Così Cristiano, col quale ho più volte intrecciato i palchi, spesso per eventi condotti a due, è stato il compagno più naturale. Ci dividono e ci accomunano abbastanza cose da fare di noi due una coppia piuttosto bilanciata. Le prime date del tour sono state fatte con Paolo Benvegnù, poi lo spettacolo cresceva, il tour continuava e Paolo era rapito da sue esigenze, così quello che all’inizio doveva essere un percorso parallelo per poche date con alcuni compagni di percorso, essendo cresciuta molto la richiesta del concerto, è divenuto un dialogo esclusivo tra me e Cristiano. E abbiamo fatto bene, perché come ho detto ci compensiamo e ci vogliamo bene da tempo.

Dal punto di vista musicale come pensi che il pubblico recepisca il periodo che descrivi in “ex” e come pensi lo ricordi e lo viva oggi?

Non saprei, è piuttosto difficile fare una valutazione come questa, poiché negli ultimi anni il pubblico si è molto frastagliato, e ha intrecciato epoche diverse nella propria affettività musicale. Siccome io per primo non indulgo in atteggiamenti nostalgici nel senso peggiore, anzi li evito, credo si percepisca che “ex” faccia una disamina interiore di certa musica che ha formato diverse generazioni da trent’anni a questa parte, e credo quindi che il pubblico accolga il ruolo di testimone a cui è chiamato a propria volta, partecipandone sentitamente. Infatti “ex” non ha nulla a che fare con un concerto di “cover” e questo lo recepisce immediatamente chiunque.

Posso valutare ciò che mi arriva dal concerto: la gente ha risposte assai varie. Sono molti coloro che mostrano di rimanere coinvolti nel concerto grazie al fatto di avere amato gran parte di quel repertorio; altri sembrano scoprire molte cose nel vortice di “ex”, che è ricco di variazioni. Per tutti è un’immersione in una materia fortemente emozionale, e il ritorno che abbiamo da parte di ogni tipo di pubblico è di affetto. Per chi non lo sapesse, non vi sono solo versioni di brani di altri, ma anche parte del mio repertorio e di quello dei Marlene Kuntz, reso in forma più essenziale.

È stato difficile scegliere i pezzi – sia vostri che non – da reinterpretare nel live?

Le linee-guida le ho tracciate io, essendo ovviamente quelle presenti nel testo; poi mi sono affidato anche a Cristiano, e l’unico metro di giudizio è la bontà di interpretazione che ne sappiamo dare quando sono brani di altri. Per me, per noi, non è affatto importante che i pezzi siano “fatti bene”, secondo criteri volgarmente tecnici, bensì restituiti nella loro sostanza espressiva, che è ciò a cui io bado sopra ogni altra cosa. Il mondo della musica trabocca di mestieranti, assai abili nel fare questo o quello a richiesta. Noi apparteniamo invece alla genìa di chi fa le cose che sente come le sente. Non dimentichiamoci che è appena trapassato Lou Reed, il vero e fondamentale maestro di un’arte liberata da ogni orpello, ma restituita alla sua più schietta dimensione narrativa.

In “ex” cosa hai cercato di riprendere degli Underground Life, tuo primo
gruppo? In piena era digitale è cambiato il tuo modo di esprimerti dal punto di vista “multimediale”? Se sì, in che modo?

Niente di nettamente riportabile al mio primo gruppo. Certo, nel libro rivivere quegli anni
cruciali e quell’esperienza è stato fonte di spunti strettamente vicini al mio vissuto e ciò era
inevitabile, divenendo persino doloroso nel corso della stesura, come sempre lo è, attingere alle proprie vive e personali esperienze. Diciamo bene solo che abbiamo veramente provato ed io desideravo essere vero, quindi basarmi in via generale su esperienze fatte di persona, rimanendo in un indefinito nel quale potesse cantare in qualche misura l’esistenza di tanti altri. Pur coincidendo parecchio con la vita di UL, un percorso a suo modo esemplare, utile e importante per raccontare certa porzione di storia poco nota, il narrato evita di cadere nello scritto autobiografico in senso stretto.

Per quanto riguarda l’era digitale, questa mi vede solo più preparato sotto tanti punti di vista, perché non smetto il mio atteggiamento di eterno apprendistato. Un musicista non smette un solo giorno di prepararsi e di confrontarsi, se vuole essere credibile. La tecnologia subentrata con forza anche nelle cose di musica, se usata in modo giusto, è un grande aiuto. Io non ne faccio una religione, né la ignoro. La utilizzo cercando di non perdere di vista i miei e gli altrui contenuti.

“ex” diventerà presto un cd che avete mixato in questi giorni. Un nuovo passo in attesa del successivo o la chiusura di un cerchio per poi dedicarsi ad altri progetti?

Entrambe le cose, direi. E’ un documento registrato dal vivo, che vorrebbe restituire almeno parte di quella carica emotiva che si percepisce durante una serata di “ex”. Farne un disco è un evento nuovo per me, ma anche qui è una sorta di seguito naturale di tutti gli sviluppi sorprendenti cui ci ha esposto l’uscita del libro.

Io da tempo sto lavorando al mio nuovo disco, che è un capitolo nuovo e del tutto indipendente da “ex”. Fatto di nuove percezioni e basato su intuizioni diverse, come ogni mio nuovo disco vorrebbe essere. Sto cercando di fare l’opera che vorrei ascoltare, se nessun altro la fa, cercherò di realizzarla io, perché un disco rimane un’operazione pregna di senso soltanto se si riesce a recuperare il concetto di opera. Mentre il disco come oggetto e come attitudine commerciale è prossimo a finire, le idee promulgate in qualunque forma e con qualunque mezzo sono ciò che va preservato.

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Intervista ai Kalweit and the Spokes. Il loro nuovo album è “Mulch”

Kalweit and the Spokes

Kalweit and the Spokes

Secondo album per i Kalweit and the Spokes. Dodici tracce inedite tra alternative country e post punk con uno sguardo alla sperimentazione e all’elettronica per Georgeanne Kalweit (voce), Giovanni Calella (chitarra) e Mauro Sansone (batteria). Titolo del loro nuovo lavoro: Mulch. Noi ne abbiamo voluto sapere di più e per questo motivo abbiamo intervistato Georgeanne e Giovanni.

Com’è nata la copertina di questo secondo disco dei Kalweit and the Spokes? Una delle due in foto sei tu Georgeanne, vero?

Georgeanne: La foto sulla copertina è stata scattata da mio padre su un lago nel Wisconsin presso la casa estiva di mia nonna e sulla destra sono ritratta io all’età di 9 anni, mentre la bambina sulla sinistra è mia sorella. Avevo già l’idea di utilizzare una foto di mia nonna e sua sorella adulte che giocano a carte sul molo dello stesso lago – foto che compare all’interno del disco – e così trovavo giusto l’abbinamento con quella di me e mia sorella da piccole per una questione di continuità. Il filo conduttore in alcuni brani è proprio l’inesorabile passare del tempo e così la scelta mi sembrava azzeccata.

Mulch, in italiano “pacciame”. Come mai avete deciso di intitolare così il vostro nuovo album?

Georgeanne: La parola ‘mulch’ appare alla fine dello spoken word di Wetutanka e descrive come le tante cose accadute in questo luogo, che è l’isola sul lago dove sono cresciuta, sono state sepolte nel silenzio del tempo, quasi soffocate sotto uno strato di pacciame e neve attraverso gli anni. Mi sembrava che racchiudesse il concetto dell’album molto bene e così ho optato per questo nome, piuttosto conciso e diretto. Per me, poi, noi esseri umani siamo come il pacciame o l’humus per le future generazioni grazie anche alle esperienze e alle scoperte che lasciamo in eredità, come hanno fatto per noi coloro che ci sono stati prima di noi.

Di nuovo per te, Georgeanne: i testi riguardano ricordi tuoi del Minnesota e della tua Minneapolis. Perché hai deciso di “tornare” a casa? E poi: c’è “qualcosa di italiano” nei tuoi testi?

Georgeanne: Credo che per me sia stata una cosa naturale rivolgere i miei pensieri al passato dopo tanti anni in Italia, quasi 22, in una specie di resoconto della vita in un momento in cui stavo anche affrontando la realtà della morte di mio padre. Quest’episodio mi ha fatto riflettere molto sulla transitorietà della vita, così scrissi Fifth Daughter che chiude l’album in onore a lui e Kate and Joan invece dedicata a mia madre, brano che apre l’album e che narra come sono cambiati i ruoli delle donne in confronto alla sua epoca, gli anni ’50 e ’60. Nel disco ci sono tante storie di cose che mi hanno impressionata e colpita negli anni, di situazioni vissute in America, come in Liquor Lyle’s, storia di persone incontrate e di stili di vita diversi, sia a livello personale che pubblico, come ad esempio in confronto ai mass-media e ai disagi sociali che ci circondano e di cosa provocano nella gente e nel suo comportamento di riflesso. “D’Italiano” c’è ben poco nei testi in confronto al primo disco.

Comunque all’interno dell’album c’è spazio anche per personaggi immaginari come Barbie in Barbie bit the dust, giusto?

Georgeanne: Giusto, proprio per quanto riguarda il lato “sociale” c’è la Barbie e la mia voglia di fare presente, in modo ironico, di quanto obsoleto sia il suo immaginario e di come può anche essere dannosa per bambine, in quanto molto limitata come modello e ruolo.

Ne parlavi anche poco fa, ma ci ritorniamo su: che posto è Wetutanka?

Georgeanne: Wetutanka è un posto molto affascinante per la sua storia: è il nome che i Nativi  Americani della tribù Dakota davano ‘al luogo per estrarre lo sciroppo d’acero in primavera’ o anche la Grande Isola dove avevano un campo finché i primi pionieri arrivarono nel 1850 e comprarono l’isola, cacciando i Nativi. Quest’isola si trova in mezzo ad una serie di 30 baie collegate con dei canali. Si va in barca ovunque finché non si gela il lago ed in inverno ci si sposta sugli sci di fondo o in moto slitta. Una volta, c’era un luna park sull’isola, aperto nel 1906 e chiuso poi nel 1911, ospitava circa 15.000 persone al giorno che venivano da Minneapolis in tram e poi venivano portate sull’isola sui vaporetti. Suonarono i grandi della musica dell’epoca in questo enorme padiglione. Poi fu tutto smantellato e negli anni ’20 fu dato ai veterani della Prima Guerra Mondiale come campo estivo,  attivo sino ai tempi dei veterani del Vietnam. La domenica, quando ero bambina, fino all’isola ci arrivavamo in barca per far colazione proprio con i veterani. Poi alla fine degli anni ’70 fu abbandonata e cadde in rovina. Nel 1990, quando tornai a Minneapolis per laurearmi in Arte, ho aiutato il custode a pulire gli edifici rimasti, strapieni di oggetti e storia. Così ho vissuto un breve periodo lì e ho scoperto tante cose di questo luogo sacro. Ora è un parco protetto e non c’è più traccia di tutto quello che è stato, ma la storia è intrappolata lì nell’aria, e si sente, e ora è anche nella nostra canzone.

Giovanni, dal punto di vista musicale nell’album c’è anche No Need, brano “diverso” rispetto agli altri. Com’è nato questo pezzo?

Giovanni: È nato da un ritornello di piano che avevo registrato molto tempo fa e lasciato strumentale. Poi l’ho passato a Georgeanne che l’ha trasformato in una canzone. Ha quindi subito varie fasi di arrangiamento fino a quella che hai sentito. È un po’ diversa solo esteticamente dagli altri brani perché è più varia nei suoni. È un altro lato di quello che ci piace.

Se doveste fare nomi di artisti o gruppi che influenzano il vostro sound quali direste?

Giovanni: Questa è sempre una domanda troppo difficile… Ci sono gli ascolti che ti porti nel DNA dall’inizio alle ultime scoperte del momento. E poi c’è dal rock all’elettronica, dal jazz e al punk, dalla sperimentazione e al folk. Insomma… tutta la bella musica che hai potuto ascoltare e che in qualche maniera ti è rimasta dentro.

In Mulch sono presenti anche alcuni ospiti: artisticamente parlando con chi di loro avete legato di più?

Giovanni: I musicisti che compaiono in un brano sono Nicola Masciullo ed Eloisa Manera rispettivamente polistrumentista e violinista. Nicola è un mio amico storico, facciamo musica insieme da quando eravamo ragazzini. Eloisa è un’amica più recente, una violinista veramente acuta e brillante…

Georgeanne: … Per non parlare dei Gnu Quartet che hanno fatto l’arrangiamento per archi e hanno suonato in Ice Man nel primo album, Around the Edges, e anche in Fifth Daughter nel nuovo disco. Con loro ci siamo trovati molto, molto bene.

Siamo in conclusione, ma prima un’ultima domanda d’obbligo: quali sono i vostri prossimi impegni?

Georgeanne: Naturalmente vogliamo portare Mulch in giro dal vivo in Italia e anche all’estero, visto che i testi sono tutti in inglese, ma soprattutto negli Stati Uniti dopo l’esperienza positiva di promozione radiofonica fatta su 300 college radio in America e Canada.

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Bob Dylan: “Il desiderio è il motore dell’esistenza umana”

Bob Dylan "Desire" (Columbia, 1976)

Bob Dylan “Desire” (Columbia, 1976)

Dopo aver ritrovato successo e ispirazione (vedi Planet Waves e Blood On The Tracks), Dylan torna in studio. L’unica canzone ultimata prima dell’estate è One More Cup Of Coffee. 

A New York incontra la violinista Scarlet Rivera e il paroliere Jacques Levy, con i quali inizia una prolifica collaborazione: Isis e Joey ne sono una dimostrazione. Registrato tra il luglio e l’ottobre del 1975, Desire conferma l’ottima forma che stava attraversando Dylan in quei mesi. Uscirà il 5 gennaio del 1976 vendendo ottimamente sia negli Stati Uniti che in Inghilterra. Il 24 gennaio è in testa alle classifiche americane. 

Dylan nel 1976 in versione "Gypsy"

Dylan nel 1976 in versione “Gypsy”

Un album di canzoni dilatate, con chitarre e violino in primo piano, dalle atmosfere rilassate e lontano dalla profonda depressione espressa in Blood On The Tracks, con influenze qua e là mexican (Romance In Durango)canzoni d’amore (Sara e Isis) e la famosa Hurricane, dedica al pugile nero Ruben Carter, condannato ingiustamente dalla giustizia americana.

Ultimo disco registrato agli studi della Columbia, Desire chiude uno dei migliori periodi della carriera dylaniana.

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Sound + Vision: tour celebrativo per David Bowie

David Bowie - Sound + Vision Tour 1990 (Photo by Donna Santisi)

David Bowie – Sound + Vision Tour 1990 (Photo by Donna Santisi)

Sette mesi di tour per 108 concerti in 24 paesi, tra cui, per la prima volta, l’Europa dell’Est e il Sud America. Sarà anche la prima occasione in cui un artista inglese si esibirà in Argentina, dalla guerra delle Falkland.

Spiega tutto ciò David Bowie il 23 gennaio 1990 al Rainbow Theatre di Londra alla conferenza stampa di presentazione del Sound + Vision Tour.

Non c’era nessun disco da promuovere, ma l’idea di quella serie di concerti fu della EMI, la quale nel 1989 aveva iniziato a rimasterizzare e a ripubblicare tutto il catalogo della RCA di Bowie insieme a una casa discografica del Massachussetts, la Rykodisc, a partire dal cofanetto Sound + Vision.

Per evitare che quel tour venisse visto come una semplice “mossa commerciale”, Bowie inizialmente annunciò che la scaletta dei concerti sarebbe stata decisa, in parte, dai titoli più votati in un sondaggio telefonico internazionale, e poi scioccò tutti dichiarando che per accettare di fare quel tour aveva giurato che in futuro non si sarebbe mai più lasciato convincere a reinterpretare i suoi vecchi brani di maggior successo.

Le prevendite andarono bene… anzi… benissimo. In Gran Bretagna fecero immediatamente il tutto esaurito due date alla Docklands Arena da 12mila posti e per una terza serata aggiunta in seguito i biglietti furono venduti in otto minuti. A fine estate le date in più per ammirare Bowie dal vivo furono due, una allo stadio Maine Road di Manchester e l’altra al Milton Keynes Bowl, luogo da 65mila posti.

Nicholas Pegg nel suo Bowie. Le canzoni, gli album, i concerti, i video, i film, la vita: l’enciclopedia definitiva, p. 496, Arcana 2012, spiega così la scenografia del Sound + Vision Tour: “Dopo il fallimento di Glass Spider (tour del 1987, ndr), gli occhi di tutti erano puntati sull’allestimento di Sound + Vision, e fu proprio qui che il tour iniziò a lavorare a pieno ritmo. Alla conferenza stampa di gennaio Bowie disse ai giornalisti che il concerto sarebbe stato ‘non certo paragonabile per dimensioni a Glass Spider, ma credo che tutto sommato, dal punto di vista qualitativo, sarà teatrale’. A MTV spiegò: ‘Voglio dire che il palco sia il più minimalista possibile. Avrei voluto dare la sensazione di un palcoscenico da opera o balletto, con uno spazio lungo e buio da illuminare in modo teatrale’. Su quello sfondo, al designer e coreografo canadese Edouard Lock […] fu affidato il compito di realizzare un concetto interattivo nuovo e spettacolare. Nel centro della scenografia c’era un gigantesco schermo di garza che si sarebbe sollevato e abbassato in momenti diversi per la proiezione di immagini video e live preregistrate, mentre la luce faceva passare ciò che risultava attraverso diversi livelli di trasparenza. ‘Useremo un vero schermo da opera lirica’, spiegò Bowie. ‘È il video più grande mai utilizzato: immagini di dodici metri per quindici proiettate da un sistema modernissimo costruito apposta’.

Il concetto si basava sull’interesse crescente che Bowie nutriva per la distanza esistente tra la percezione del divismo e la realtà, e così concepì l’idea di interagire sul palco con immagini proiettate di se stesso” […].

(Per approfondire l’argomento cfr. Nicholas Pegg, Bowie. Le canzoni, gli album, i concerti, i video, i film, la vita: l’enciclopedia definitiva, pp. 495-498).

In ogni caso, che sia stata più importante la musica o la scenografia, i concerti del Sound + Vision Tour iniziavano tutti così: http://www.youtube.com/watch?v=SvDvtgVG-xo

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Gennaio 1982: i Cure al lavoro su “Pornography”

"Pornoghraphy" (Fiction, 1982)

Cure – “Pornoghraphy” (Fiction, 1982)

Il 22 gennaio 1982 Robert Smith viene intervistato dal New Musical Express in merito alla lavorazione del quarto album dei Cure, il seguito di Faith (Fiction, 1981).

Preceduto dal singolo Hanging Garden/One Hundred Years, ad aprile viene pubblicato Pornography, un disco cupo, opprimente, in cui aleggia lo spettro della morte. È lo stesso Smith a raccontarlo dettagliatamente: “Pornography è la combinazione di due anni confronto e osservazione della gente che accetta le situazioni senza mai reagire, restandosene apatica – gente che io detesto sempre di più… Io credevo di poter umanista, ma davanti a questa gente ‘morta’ è davvero impossibile… Pornography chiude un ciclo dei Cure e ne apre un altro, perché pensarlo e realizzarlo mi è costato troppo…”

Pornography è il primo disco dei Cure ad entrare nella Top 10 inglese, grazie proprio all’efficace singolo Hanging Garden, scandito da un ritmo tribale e dal basso pulsante di Simon Gallup.

Nel corso dell’estate i Cure sono in tour per promuovere l’LP ma Robert Smith entra in una profonda crisi personale, sempre più stanco e distrutto dagli eccessi della band: “Stavamo letteralmente crollando… Più che un tour dei Cure sembrava una squadra di rugby rintronata”.

Alla fine della tournée Simon Gallup – dopo una furiosa lite con Smith – viene estromesso dal gruppo. Ed è qui che finisce cronologicamente e idealmente la prima parte di carriera… nonché l’ultimo tassello di una trilogia iniziata in maniera “gothic” con Seventeen Seconds.

I Cure nel 1982

I Cure nel 1982

Pornography è pervaso infatti da un senso di malessere e depressione, trasmesso sapientemente da tessiture sonore incessanti e ossessive, con l’incedere monotematico della batteria elettronica; la voce di Smith è spettrale e distante, le chitarre lontane e riverberate.

Un disco che si discosta dalle atmosfere estatiche di Seventeen Seconds e dalla malinconia senza fine di Faith: esso è l’ammissione tragica dell’amore inteso come fonte primaria di dolore. Faith è un disco triste. Pornography è invece un labirinto morboso di cieca e autentica disperazione.

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