Manca poco all’uscita del cd registrato durante la serata del 28 dicembre dello scorso anno alla Latteria Molloy di Brescia. Un live tra i tanti che gianCarlo Onorato ha tenuto insieme a Cristiano Godano dei Marlene Kuntz.
Prima, però, lo stesso gianCarlo Onorato ha pubblicato un saggio sui generis dal titolo “ex – semi di musica vivifica” (VoloLibero, 2013). Musicista, scrittore, pittore e produttore, esordisce nel 1977, a soli diciassette anni, alla guida degli Underground Life, gruppo di rock dʼarte, dedito all’interazione di diverse discipline (narrativa, poesia, videoarte, teatro, danza, musica). Onorato ama nuove atmosfere libere da generi definiti e prosegue in questo suo intento nel 1992 quando inizia la sua carriera solista, approdando man mano a una dimensione in cui le diverse discipline riusciranno a convivere tra loro e in tutta la sua produzione.
Velvet Underground, Radiohead, Nick Cave e Beck dicono già molto riguardo a come è nato e a come sta crescendo “ex”, ma gianCarlo Onorato nell’intervista che ci ha gentilmente concesso ci ha detto molto di più.
Dove nasce l’esigenza di “raccontare l’Italia dal 1977 fino a dieci anni fa, dal punto di vista intimo e insieme socio-musicale di un musicista”?
Pensavo semplicemente che non fosse mai stata raccontata, in Italia, da questo punto di vista. In ogni caso è un periodo che racchiude tanti e tali cambiamenti e gangli socio-culturali per gli anni a seguire, che pensavo che come impresa andasse tentata. Inoltre le diverse retrospettive offerte del periodo a partire da quel fatidico 1977 mi sono spesso parse piuttosto parziali, o, peggio, descrizioni di persone, fatti e scenari deformati dalla nostalgia, se non semplicemente e asetticamente riportati come dati meramente storici, ma poco calati in un raffronto col presente.
Quando alcuni anni fa mi fu commissionato un articolo su ciò che artisticamente e culturalmente avesse rappresentato secondo me il periodo degli anni ottanta, dopo la stesura di un pezzo lungo e alquanto critico, mi sono reso conto che questo non era sufficiente per dire la mia e che mi rimanevano in tasca molte impressioni da offrire su un lungo periodo.
Così ho messo da parte momentaneamente il romanzo al quale lavoro da tempo, e ho affrontato questo testo, che per me è stato arduo portare a termine. Realizzavo che in definitiva non avrebbe avuto senso parlare di oggi senza risalire a quella che è stata una sorta di fonte di molte delle istanze che ancora ci riguardano molto intimamente, così come viceversa non sarebbe stato interessante parlare solo di quel periodo, trascurando un necessario allacciamento a ciò che oggi viviamo. Scrivendo ho preferito così una visuale intima, personale, con una forte apertura verso il collettivo. La seconda persona a cui mi rivolgo nel testo è al tempo stesso un tu riflessivo, sia un voi/noi.
Non so se questa operazione sia riuscita del tutto, tuttavia mi ha permesso di chiudere un debito importante che avevo col passato, e aprire un dialogo con chiunque lo volesse, sulla necessità di essere sempre attivi nella realtà, in qualsiasi tempo.
Come ha vissuto un musicista l’Italia di allora e come vive quella di oggi?
Il termine musicista vive di accezioni talmente ampie e sfaccettate, che almeno nel mio caso, e almeno a partire dal post-punk, è necessario parlare più genericamente di un individuo creativo. Personalmente, avendo avuto da subito ben chiaro che il mio nemico fosse qualunque classificazione, in genere, categoria, epoca, stile eccetera, lo scopo fosse quello di lavorare su di me. Ed è ciò che mi ha salvato dalle categorie e dall’appartenenza a qualunque epoca.
Tempo fa il nostro Paese rifletteva inevitabilmente anche nella musica una forte connotazione provinciale, ed era ancora più marcato il confine tra musica colta e musica popolare. Oggi tutta questa separazione comincia a non significare più nulla, e questo è un passaggio importante.
Per il resto, direi che ieri si lottava contro un potente isolamento culturale, comunicativo, strumentale, mentre oggi, che queste lacune sono compensate dalla tecnologia diffusa ovunque, il problema è quello di trovare una propria voce, una identità il più possibile autonoma in un oceano di contaminazioni e di intromissioni. La nostra ricchezza di fonti è anche il nostro principale generatore di povertà.
Mi pare che oggi il vero problema sia quello di riuscire a trovare un attimo di solitudine intellettuale, che allevi il frastornamento di troppi messaggi simultanei. Sappiamo tutti che isolare e approfondire le idee è il vero problema dei giorni nostri. Il silenzio utile a capire chi siamo è dura prova individuarlo. Ma l’equilibrio tra confronto e approfondimento è ciò che determina un percorso sensato.
Avevi previsto sin dall’uscita del libro che lo spettacolo sarebbe diventato un concerto-reading?
No, ma quando il libro è stato sul punto di essere pubblicato cioè, caso raro, appena terminato di scrivere, mi sono reso conto che il testo sarebbe stato alieno a molti ambienti imbalsamati quali sono spesso quelli strettamente narrativi, così come sarebbe stato troppo spinto sul piano intellettuale per essere accolto facilmente in quelli un po’ troppo svuotati di contenuti come quelli musicali. Dunque la cosa più naturale, piuttosto che arrampicarmi su improbabili presentazioni in cui avrei snocciolato le mie elucubrazioni (per quanto essenziali) su musica, individuo, società, filosofia e scienza, sarebbe stata quella di suonare lasciando galleggiare nell’aria tutto questo e affidandomi poi alla voglia di approfondimento che in seguito sarebbe potuta scaturire da certe suggestioni lanciate in concerto. Da lì in poi è stato un susseguirsi di concerti e di risposte emozionanti all’emozione che noi musicisti sul palco provavamo.
Tengo solo ora piccole e sporadiche presentazioni del libro più normali, ma deve esserci la condizione giusta, liberata dalla retorica salottiera che generalmente accompagna la presentazione di un libro. Si tende a una doppia e improduttiva visione del libro: da una parte è ignorato, dall’altra parte considerato per convenzione come una specie di summa di verità inconfutabili e oggetto di eccessiva venerazione un po’ ottusa. Un libro è un insieme di considerazioni di una persona, raccolte in modo organizzato e con uno sperabile senso della misura sia dal punto di vista artistico sia comunicativo. Ignorarlo è stupido e dannoso, idolatrarlo per partito preso, altrettanto dannoso, ma ancora più stupido. Quindi mi piace parlare in pubblico del mio libro, o, se si preferisce, di ciò che io avrei da dire su certi argomenti e che poi è stato in parte condensato nel testo, ma solo in situazioni in cui so di potere abbattere certe barriere retoriche e poter entrare in vibrazione personale con chi mi ascolta, ascoltando a mia volta. Molte cose le sbaglio di certo, sarebbe stupido non considerarlo e il mio mestiere offre un unico grandissimo privilegio: quello del confronto continuo.
Com’è nata l’idea di coinvolgere Cristiano Godano nel progetto?
Anche questo è stato naturale. Da anni tengo un fitto dialogo con parecchi musicisti di diverse generazioni, e trovo che sia sinceramente un arricchimento per tutti conoscersi e frequentarsi, al di là dei propri percorsi, perché sigillarsi nella carriera è rischioso e può portare a irrigidirsi eccessivamente su ciò che si crede di avere da dire. Nessuno ha granché da dire se non ascolta ciò che altri dicono. Così Cristiano, col quale ho più volte intrecciato i palchi, spesso per eventi condotti a due, è stato il compagno più naturale. Ci dividono e ci accomunano abbastanza cose da fare di noi due una coppia piuttosto bilanciata. Le prime date del tour sono state fatte con Paolo Benvegnù, poi lo spettacolo cresceva, il tour continuava e Paolo era rapito da sue esigenze, così quello che all’inizio doveva essere un percorso parallelo per poche date con alcuni compagni di percorso, essendo cresciuta molto la richiesta del concerto, è divenuto un dialogo esclusivo tra me e Cristiano. E abbiamo fatto bene, perché come ho detto ci compensiamo e ci vogliamo bene da tempo.
Dal punto di vista musicale come pensi che il pubblico recepisca il periodo che descrivi in “ex” e come pensi lo ricordi e lo viva oggi?
Non saprei, è piuttosto difficile fare una valutazione come questa, poiché negli ultimi anni il pubblico si è molto frastagliato, e ha intrecciato epoche diverse nella propria affettività musicale. Siccome io per primo non indulgo in atteggiamenti nostalgici nel senso peggiore, anzi li evito, credo si percepisca che “ex” faccia una disamina interiore di certa musica che ha formato diverse generazioni da trent’anni a questa parte, e credo quindi che il pubblico accolga il ruolo di testimone a cui è chiamato a propria volta, partecipandone sentitamente. Infatti “ex” non ha nulla a che fare con un concerto di “cover” e questo lo recepisce immediatamente chiunque.
Posso valutare ciò che mi arriva dal concerto: la gente ha risposte assai varie. Sono molti coloro che mostrano di rimanere coinvolti nel concerto grazie al fatto di avere amato gran parte di quel repertorio; altri sembrano scoprire molte cose nel vortice di “ex”, che è ricco di variazioni. Per tutti è un’immersione in una materia fortemente emozionale, e il ritorno che abbiamo da parte di ogni tipo di pubblico è di affetto. Per chi non lo sapesse, non vi sono solo versioni di brani di altri, ma anche parte del mio repertorio e di quello dei Marlene Kuntz, reso in forma più essenziale.
È stato difficile scegliere i pezzi – sia vostri che non – da reinterpretare nel live?
Le linee-guida le ho tracciate io, essendo ovviamente quelle presenti nel testo; poi mi sono affidato anche a Cristiano, e l’unico metro di giudizio è la bontà di interpretazione che ne sappiamo dare quando sono brani di altri. Per me, per noi, non è affatto importante che i pezzi siano “fatti bene”, secondo criteri volgarmente tecnici, bensì restituiti nella loro sostanza espressiva, che è ciò a cui io bado sopra ogni altra cosa. Il mondo della musica trabocca di mestieranti, assai abili nel fare questo o quello a richiesta. Noi apparteniamo invece alla genìa di chi fa le cose che sente come le sente. Non dimentichiamoci che è appena trapassato Lou Reed, il vero e fondamentale maestro di un’arte liberata da ogni orpello, ma restituita alla sua più schietta dimensione narrativa.
In “ex” cosa hai cercato di riprendere degli Underground Life, tuo primo
gruppo? In piena era digitale è cambiato il tuo modo di esprimerti dal punto di vista “multimediale”? Se sì, in che modo?
Niente di nettamente riportabile al mio primo gruppo. Certo, nel libro rivivere quegli anni
cruciali e quell’esperienza è stato fonte di spunti strettamente vicini al mio vissuto e ciò era
inevitabile, divenendo persino doloroso nel corso della stesura, come sempre lo è, attingere alle proprie vive e personali esperienze. Diciamo bene solo che abbiamo veramente provato ed io desideravo essere vero, quindi basarmi in via generale su esperienze fatte di persona, rimanendo in un indefinito nel quale potesse cantare in qualche misura l’esistenza di tanti altri. Pur coincidendo parecchio con la vita di UL, un percorso a suo modo esemplare, utile e importante per raccontare certa porzione di storia poco nota, il narrato evita di cadere nello scritto autobiografico in senso stretto.
Per quanto riguarda l’era digitale, questa mi vede solo più preparato sotto tanti punti di vista, perché non smetto il mio atteggiamento di eterno apprendistato. Un musicista non smette un solo giorno di prepararsi e di confrontarsi, se vuole essere credibile. La tecnologia subentrata con forza anche nelle cose di musica, se usata in modo giusto, è un grande aiuto. Io non ne faccio una religione, né la ignoro. La utilizzo cercando di non perdere di vista i miei e gli altrui contenuti.
“ex” diventerà presto un cd che avete mixato in questi giorni. Un nuovo passo in attesa del successivo o la chiusura di un cerchio per poi dedicarsi ad altri progetti?
Entrambe le cose, direi. E’ un documento registrato dal vivo, che vorrebbe restituire almeno parte di quella carica emotiva che si percepisce durante una serata di “ex”. Farne un disco è un evento nuovo per me, ma anche qui è una sorta di seguito naturale di tutti gli sviluppi sorprendenti cui ci ha esposto l’uscita del libro.
Io da tempo sto lavorando al mio nuovo disco, che è un capitolo nuovo e del tutto indipendente da “ex”. Fatto di nuove percezioni e basato su intuizioni diverse, come ogni mio nuovo disco vorrebbe essere. Sto cercando di fare l’opera che vorrei ascoltare, se nessun altro la fa, cercherò di realizzarla io, perché un disco rimane un’operazione pregna di senso soltanto se si riesce a recuperare il concetto di opera. Mentre il disco come oggetto e come attitudine commerciale è prossimo a finire, le idee promulgate in qualunque forma e con qualunque mezzo sono ciò che va preservato.